Cosa facevo
io d’estate. Io e i miei fratelli eravamo molto fortunati, perché stavamo via
tutta l’estate. Quando finiva la scuola ricordo che a casa c’era un fermento
operoso, perché chiudere casa per tre mesi era un affare serio. Non so bene
cosa facesse mia madre, ma la ricordo in preda all’operosità casalinga senza
fine, assieme alla mia tata, che sembrava si preparassero all’invasione della
Polonia. Anche ora, che sono (pressochè?) adulta e anche madre e anche
potenzialmente casalinga, non riesco ad immaginare cosa facessero tutto il
giorno, per almeno una o due settimane, (e questo dovrebbe forse farmi porre
delle domande). Cioè, a parte le valige. Comunque a noi bambini questa cosa ci
sfiorava appena. Ricordo che mi mettevo in costume e fingevo di nuotare
strisciando sul pavimento di marmo, come fanno i gatti quando hanno caldo.
Ricordo che alla mattina mi svegliavo nel caldo e nella luce con le finestre spalancate
e pregustavo il vuoto di una giornata senza doveri, come solo i bambini possono
avere.
Poi si
partiva. E le mete erano tre.
Meta numero
uno.

La casa di
campagna dei nonni era meta ambitissima da noi bambini, perché là c’era
l’immensità della campagna, la camera con 4 letti a castello rossi in cui
dormire assieme ai cugini, la libertà, il controllo parentale assai allentato,
il mistero di una villa antichissima forse popolata dai fantasmi, giochi da
inventare, favole da raccontarsi, mondi da immaginare, le biciclette, la
fattoria “Mammi” dove andare a comprare il latte (che bisognava bollire e poi
togliere la panna) e le uova, ma soprattutto a vedere gli animali e se eri
fortunato c’erano anche i cuccioli appena nati di qualche mucca o maiale o cane
o gatto. Della Campagna ricordo le nottate tra cugini e il vasino da notte
perché era troppo buio per attraversare l’enorme loggia buissima in cui
aleggiava il fantasma del Conte Solimei.
Il vaso da notte si rovesciava
puntualmente o qualcuno ci metteva il piede dentro per sbaglio, creando tutta
una mitologia infantile che accomuna tutti noi cugini in un lessico famigliare
indissolubile. Prima di crollare nel sonno si faceva un gran casino, si
raccontavano storie di paura, si dava la caccia al grillo entrato in camera che
non faceva dormire, una notte era pure entrato un pipistrello, e c’era sempre
quell’odore di zampirone, che non so come non siam morti intossicati, ma era un
odore bellissimo. Ricordo le biciclette, un numero imprecisato un po’ di tutte
le misure, che ci passavamo a seconda dell’età, ma ne mancava sempre una,
quindi c’era per l’ultimo cugino di turno, il mezzo di locomozione sfigato che
era un lentissimo monopattino con cui il cugino arrancava lentissimo dietro gli
altri, spingendosi con il piede forsennatamente e gridando all’ingiustizia.
Poi
intorno alla casa, nell’immenso parco, c’erano i vari mondi. Diversi, ognuno
con la sua luce e con la sua favola da raccontare e la sua avventura da vivere.
Ricordo la chiesetta, ovvero la cappella privata della villa, quasi sempre
chiusa, e dalle cui finestre si spiava dentro e si vedevano paurose effigi e
statue buie e arredi di legno scuro, e puzza di muffa e mistero. Dietro la chiesetta,
un fico su cui una volta c’era un serpente giallissimo, che ricordava tanto una
illustrazione di Adamo ed Eva. Dietro la chiesetta, un campo di grano, IL campo
di grano per antonomasia, dorato, giallo perfetto, e dietro ancora, il cielo
azzurro, perché eravamo nella bassa modenese, quindi era tutto piatto a perdita
d’occhio, e lì capivi come per secoli il mondo poteva davvero essere stato
piatto e infinito come la pianura padana. Nel parco c’era un inquietante
laghetto artificiale, in mezzo al boschetto, e dentro ci tocciavano i rami di un salice piangente che a noi
bambini sembrava tristissimo per davvero, e tutto intorno c’erano le famose
sabbie mobili che inzaccheravano le gambe fino alle ginocchia, e se
t’impantanavi e sopravvivevi, dovevi fare i conti con le mamme. Nei periodi di
siccità si formava l’isola, e sull’isola ci andavano solo i cugini grandi
ovvero mio fratello Giacca e Mattia il Gigante che beveva sempre latte anche al
posto dell’acqua. Il laghetto era l’incubo dei genitori, che avevano paura che
affogassimo, quindi si era formata tutta un clima di terrore per cui ci si
avvicinava solo di nascosto, e comunque sabbie mobili e salice piangente lo
avevano fatto diventare la palude della tristezza della Storia Infinita, quindi
ci si avvicinava cautamente. Vicino al laghetto c’era l’altalena, perché non
c’è infanzia senza altalena, e non c’è infanzia senza i turni, litigi e guerre,
per salire sull’altalena. Poi c’erano le stalle. La villa era del ‘700, con una loggia centrale per far entrare le
carrozze, ed una stalla interna per i cavalli. La stalla vecchia era buia,
c’era odore di aceto perché c’erano tante bottiglie con le paurosissime madri
che facevano l’aceto di vino, e qualche volta noi bambini toglievamo il
cappuccio fatto di carta di giornale e infilavamo il dito per assaggiare
l’aceto che era un po’ come ubriacarsi col vino rosso. Ci stavano, un po’
accatastate e ingarbugliate tra loro le bici, la pompa e le camere d’aria di
ricambio o da aggiustare. C’era l’asse da stiro perché faceva fresco e lì ci si
poteva stirare, e c’erano miriadi di attrezzi e oggetti polverosi e
sconosciuti, e ogni volta che entravi dovevi stare attento. Poi c’era la stalla
nuova, un edificio staccato dalla casa, dietro a dei cipressi e superato l’albero su cui era stata costruita
la casetta sull’albero che però poteva andarci solo il cucino grande perché era
pericoloso. Nella stalla nuova c’era più luce, c’era il lavatoio e forse la
lavatrice, non ricordo perché a noi bimbi le faccende domestiche non ci tangevano.
Ricordo che spesso entravano le libellule giganti e poi battevano sui vetri per
uscire. Dietro alla stalla nuova c’era la ghiaia, ovvero un mucchio di ciottoli
che non ho mai capito perché fossero lì, ma ci avevano detto che erano molto
preziosi, quindi non si potevano spargere in giro, e dunque diventavano molto
interessanti ai nostro occhi, e ovviamente li spargevamo in giro.
Lì accanto
c’era la buca della sabbia e la carriola arrugginita. E poi c’era la legnaia,
dove ci nascevano sempre i gattini, che, per quanto ne sapevamo, venivano
generati spontaneamente dalla legna , e spasimavamo per prenderne uno, ma non
c’era verso. Ricordo il bosco di noccioli (poteva essere un bosco solo per noi
nani) dove ci mangiavamo chili di nocciole ancora verdi schiacciate sui sassi,
e i gelsi piangenti, che erano in realtà dei tepee indiani dentro cui noi
femmine ci rifugiavamo e mangiavamo le more di gelso, anche quelle ancora
bianche e aspre, e ci sporcavamo la maglietta “con le more che non vengono più
via”. Davanti alla casa, sotto la finestra della cucina, era cresciuto un
albicocco, famoso perché si raccontava che fosse nato perché la mia mamma da
bambina aveva buttato dei noccioli di albicocche dalla finestra. Poi c’era il
mondo vicino alla botte e al carro, lungo uno dei fianchi della casa. C’era un
grande botte di legno, sicuramente preistorica e un antico carro di legno, su
cui si poteva salire solo col permesso, e a fianco un prato grande e incolto
con l’erba alta che se ti sdraiavi non ti vedeva nessuno, e dietro quel campo
tramontava sempre il sole, quindi era a occidente. Poi c’erano i pioppi
cipressini, uno a destra e uno a sinistra del cancello di ferro battuto
all’ingresso della villa, ed erano i guardiano della casa, quello più basso era
la nonna, quello più alto il nonno. Da lì, partiva il viale di ghiaia bianca
(il viale magico che conduceva al nostro mondo magico) delimitato dalle siepi
di bosso (quell’odore non si scorda mai) in cui c’erano i nidi di ragni tigre,
a righe gialle e nere. Dell’interno della casa ricordo la grande sala, col
pianoforte a coda ma senza corde che le avevano rubate i tedeschi durante la
guerra, la stanza del camino in cui molto raramente si vedeva un po’ di tv con una brionvega rossa in bianco e nero,
ricordo numerose stanze da letto e lo studio del nonno, in cui a volte ci
faceva vedere dei filmini dei Tom e jerry con Super8, era come andare al cinema
e si sentiva quel rumore della pellicola che scorre e a volte si ferma. Ricordo
la cucina spartana con vecchie pentole di alluminio, e dietro la cucina, la
porta quasi come nascosta, come un passaggio segreto, che portava alla stanza
da letto della zia Matilde, la sorella di mia nonna, che era sempre un po’
triste. E poi c’era la soffitta, la terribile, affascinante, misteriosa, buia
soffitta piena di tesori e dove ci aveva fatto il nido la civetta. Lì tutto era
spettrale, la lampadina, sarà stata da 5 watt come le lucine dei cimiteri,
chissà poi perché, cosicchè tutto lì dentro faceva paura, dunque era
fichissimo. Ci si saliva per una scaletta stretta e oscura, e dovevi farlo di
nascosto, che lì c’erano anche cose preziose, o pericolose, o sicuramente
segrete.
Il Solimei, questa era la nostra Isola Che Non
c’è, e noi eravamo sia i bimbi sperduti che piterpan, e prendevamo tutti la
pastiglia per restare sempre bambini, e cioè la mollica di pane impastata con
lo zucchero a velo, ridotta a piccole palline appiccicaticce. Se dovessi far
coincidere la fine dell’infanzia più spensierata e magica, direi sicuramente
quando i miei nonni hanno venduto il Solimei, io avevo 11 anni.
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