13 dicembre 2016

La grande fatica

Caro Gmarito, questo è un encomio telematico e internettico, per manifestarti pubblicamente la mia sconfinata ammirazione.

E’ vero, hai chiesto che io dessi il “la” al relooking della sala, ovvero sbrigassi l’odioso lavoro di mascheratura con lo scotch di carta, lo spostamento di tutto il mobilio (che buffo vedere tutte quelle sedie e poltroncine e tavolini fuori dalla finestra che affollano la veranda e sembra ti chiedano di rientrare in casa come gatti infreddoliti), mettere in salvo cassettoni e tavoli ricoprendoli con una velo opalino e diafano di plastica, come nelle case popolate dai fantasmi.

Ma poi hai indossato la tuta da imbianchino, ovvero quella tuta che ti regalai per correre e ti fece schifo e da allora la usasti come tuta da lavoro, e ti sei armato di rullo come un moderno cavaliere senza macchia (si fa per dire) e senza paura e hai iniziato.

Prima di tutto hai smontato i lampadari. Tolto i chiodi e STUCCATO I BUCHI. Io, che ho l’anima pressapochista e raffazzonata, avrei pitturato attorno alle cose. E sopra i chiodi. Beh, magari i quadri sì, li avrei tolti. Tu invece avresti smontato pure i caloriferi se non ti avessi fatto desistere. Hai iniziato dal soffitto. A me, a fare quel movimento con le braccia alzate per più di un minuto e mezzo, mi avrebbero ricoverata in rianimazione per anossia cerebrale.

Non pago, hai anche accettato che pure i Fantastici ti aiutassero, convinto dalle argomentazioni psicopedagogiche ed ermeneutiche da me addotte a sostegno della partecipazione attiva filiale ai lavoretti domestici. Così, i 3 Fantastici minori, attrezzati con una moderna tuta da imbianchino in tessuto tecnico traspirante (sacchi della spazzatura), in mano rulli e pennelli, hanno iniziato a pitturare a vanvera totalmente ignari delle tue indicazioni sulla verticalità/frequenza/pressione delle pennellate. Ed anche totalmente indifferenti alle sorti del pavimento. Felici. E io, che nel frattempo bevevo un tè con tua madre, non ti ho sentito urlare istericamente nemmeno una volta, e quel silenzio non era dovuto al fatto che li avevi tutti gettati dalla finestra, ma grazie ad una santa (e devo dire rarissima) pazienza.

Stoicamente hai sacrificato i giorni di vacanza, tra il referendum e l’Immacolata, per ridare alla sala l’antico splendore. Anzi, molto più dell’antico splendore considerato che 13 anni fa le pareti di casa erano tutte rosa salmone ad eccezione delle camere, di un ridente color penicillina tanto in voga negli anni ’60, e l’allora imbianchino aveva fatto un lavoro mediocre (tipo, come l’avrei fatto io), per di più con una tempera mediocre, che bastava una piccola abrasione al muro per riportare alla luce l’antico colore, come un’affresco dimenticato (e francamente da dimenticare).

Così, dopo avere completato la grande fatica, comprendente le canoniche due mani, i ritocchi dei piccoli particolari e difetti, siamo stati tutti accecati dall’abbacinante bianchezza di questa moderna (e minimal-chic) cappella sistina.

Lavare il pavimento e disincrostarlo dalle macchie, pulire gli zoccolini, passare la cera, e fare entrare in casa il mobilio esiliato, è stata una piccola fatica davvero ben ricompensata.

Ora la sala è più bella di quando ci siamo sposati.

Come il nostro matrimonio.
 

Cioè, tutta sta manfrina per dirti questo.

(E comunque, visto che non si deve mai smettere di perfezionarsi, mancano ancora tutte le altre stanze della casa.)
 

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