24 giugno 2018

Morte, bellezza, ineluttabilità



Lettera d’amore
di Sylvia Plath


Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta

anche se, come una pietra, non me ne curavo

e me ne stavo dov’ero per abitudine.

Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no-

e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo

di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,

di comprendere l’azzurro, o le stelle.

Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente

mascherato da sasso nero tra i sassi neri

nel bianco iato dell’inverno-

come i miei vicini, senza trarre alcun piacere

dai milioni di guance perfettamente cesellate

che si posavano a ogni istante per sciogliere

la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,

angeli piangenti su nature spente,

Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.

Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.

E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.

La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,

e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada

limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte

pietre stolide e inespressive,

Io guardavo e non capivo.

Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi

per riversarmi fuori come un liquido

tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante

Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.

Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.

La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.

Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:

un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.

Da pietra a nuvola, e così salii in lato.

Ora assomiglio a una specie di dio

e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima

pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono.


E pensare che-per inciso-questo amore l'ha portata ad uccidersi. A 30 anni.

Non senza prima avere lasciato la colazione ai suoi due bambini che dormivano nella stanza vicina.


Poco prima di morire ha scritto:



Limite (Febbraio 1963, scritta poco prima di morire)



La donna ora è perfetta

Il suo corpo

morto ha il sorriso della compiutezza,

l’illusione di una necessità greca

fluisce nei volumi della sua toga,

i suoi piedi

nudi sembrano dire:

Siamo arrivati fin qui, è finita.

I bambini morti si sono acciambellati,

ciascuno, bianco serpente,

presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.

Lei li ha raccolti

di nuovo nel suo corpo come i petali

di una rosa si chiudono quando il giardino

s’irrigidisce e sanguinano i profumi

dalle dolci gole profonde del fiore notturno.

La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,

non ha motivo di essere triste.

E’ abituata a queste cose.

I suoi neri crepitano e tirano.


Ecco cosa (mi) scrive ( su W'app) Valentina Vetri, traduttrice, studiosa d letteratura inglese, amante della letteratura e della poesia ma soprattutto della parola (nonchè mia cognata):
Raramente scriviamo quando siamo felici.
Il linguaggio della poesia è un linguaggio primitivo, immaginifico. Di solito chi ha il dono per questo linguaggio parla di cose che sente, o che vede, che rimandano all'universalità della nostra condizione. La nostra mortalità, il mistero della vita. La poesia cura la nostra mortalità e anche il senso del dolore profondo che accompagna la vita, esponendolo ed esorcizzandolo allo stesso tempo, costringendoci ad attraversarlo.Di base, dietro alla bellezza c'è sempre qualcosa di doloroso. I poeti colgono anche la felicità ma sono anche intrisi della sua caducità.
Noi leggiamo per l'ebbrezza che si prova a pensare: "fratello! Sorella!" quando riconosci le tue stesse parole in qualcuno.

bellissimo

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