31 luglio 2015

zolfanelli

Il mio carburante è avere un progetto. In assenza di un progetto divento la regina delle larve, divento l’alga mucillagine di Cesenatico, mi svuoto come un palloncino usato, sono fiacca come Panda allo zoo. Alla fine mi basta poco, fare una casetta di cartone con lo scatolone, disporre i fiori in un vaso, fare una torta, cambiare di posto ai mobili. Ma è come lo zolfanello della piccola fiammiferaia, un attimo di luce, tutto sembra trasformato, e poi si consuma e si ripiomba nell’inverno.
I bambini sono annoiati. I parchi sono impraticabili. Megamin ha passato l’età del parco, le femmine sembra che senza amichette non possano più vivere, ma ovviamente sono quasi tutti in vacanza, e poi quando le invito sperando che si autonomizzino, è tutto un: mamma posso dipingere? Mamma facciamo una torta? Mamma possiamo fare le pozioni magiche e gli esperimenti con cose che sporcano tutta la casa? Cose-insomma- che richiedono la mia presenza. Quando arrivo a casa, finchè sto in cucina a fare delle cose ordinarie e pallose da casalinga, va tutto bene. Appena mi siedo al computer, arrivano come api sul miele, o mosche sulla…, ahem.
-Mamma cosa fai? (cerco di evadere senza dovere scappare col primo treno, amore)
- Devo lavorare un po’-
Mamma posso guardare ?(no, perché tu guardi con le mani.)
-Si, ma non puoi guardare un bel film? Che ti annoi meno?-
-Mamma posso disegnare? ( se tocchi quella tavoletta grafica sei morto, quella tavoletta è il più bel regalo mai ricevuto in vita mia, quella tavoletta è come braccio, quella tavoletta è la mia Porta Blu)
-No, non puoi. Spostati che mi stai addosso-
- Mamma  facciamo un puzzle? (sono 5 anni che non fai un puzzle, sono 5 anni che ti prpongo un puzzle, basta, ormai i giochi intelligenti li abbiamo archiviati)
-Fai un puzzle ti, AMORE, che sei bravissima-
Mamma, adesso cosa fai? (Pensavo di imbavagliarti e metterti dello scotch da pacchi sulla bocca)
-Lavoro, cerco di lavorare, amore. Vai a fare un po’ di compiti, che sei indietrissimo.
-E questo pulsante, cos’è?-(e’ il pulsante che se lo tocchi dà una scarica elettrica a 2000 watt ai bambini molesti)
- Vai a giocare con l’Ipad, che questi pulsanti non si toccano.-
Alla fine ci rinuncio, vado a stirare. Vado a fare lavatrici. Tanto, se non c’è un PROGETTO vero, che mi legittima, che mi fa ardere, alla fine non ho la giusta resistenza alle avversità.
La chiamano RESILIENZA, (nuova parola di moda) che io pensavo fosse una caratteristica della carta igienica, invece pare sia capacità di affrontare le avversità. Sono come una carta igienica di pessima qualità, io, tipo quella solo a due veli.
Poi, un giorno, arriva un bel progetto, e allora è come l’anfetamina. Non importa cosa mi separa dalla mia postazione pc, fossero anche 12 lavatrici, il dentista al pomeriggio, giocare a nont’arrabbiare, tollero tutto sapendo che, una volta tutti a letto, o davanti alla Tv, potrò essere libera.
Allora-quando arriva il progetto non è più uno zolfanello, divento una torcia umana, nessun ostacolo si frapporrà tra me e quel pc.
Divento una madre orribile, dal mio punto di vista: (sì, amore, vai a guardare pure 5 ore di TV, sì amore, puoi dormire vestita, sì amore, mangia pure un gelato dopo che ti sei lavata i denti). Tutto, pur di lavorare al PROGETTO. Dal punto di vista dei bambini, non so semi vedono come una madre splendida. O schizofrenica.
Resisto come i rotoloni regina.
Ed ora ho un progetto.

Son tutti cacchi vostri.

30 luglio 2015

mete dell'estate n. 2: Sfruzbourg


L’altra meta dell’estate, era la seconda patria, ovvero Sfruzbourg, nella valle delle mele, un luogo deturistizzato e misconosciuto. Una casetta in un complesso con aspirazioni turistiche degli anni ‘80, una camera con due letti a castello +1, intorno prati d’erba spagna, il bosco, le montagne sullo sfondo. Unici posti proibiti, il garage e le case in costruzione, per il resto, pure la strada era innocua, che passava forse una macchina al giorno, e giù da quella discesa d’asfalto scendevamo sullo skateboard o sul carretto di altri bambini sgrattuggiandoci le ginocchia. E l’abetone gigante aveva un ramo basso ad altezza bimbo, e tutti gli altri disposti a salire come una scala a chiocciola,  e mia madre a volte si affacciava alla finestra e trovava uno di noi quasi in cima, lo riconosceva dal Kway (quando il kway era solo una giacca a vento rossa o blu e non un capo d’alta moda di nylon da 400 euro) e credo perdesse 10 anni di vita.
Nelle case intorno c’erano ragazzini della nostra età. Ricordo corse e giochi nel campone di fronte a casa, ricordo l’addentrarsi nei rovi a prendere lamponi e scansare ortiche alte un metro e mezzo, la costruzione di archi, spade, armi con i rami di nocciolo, le passeggiate nel bosco con papà a prendere funghi sperando di vedere qualche gnomo, e poi ogni tanto il caminetto acceso perché da giungo ad agosto capitavano pure giornate fredde, che oggi tutti i giornali scriverebbero allarmati che sta arrivando la seconda glaciazione. Nei miei ricordi, tornavamo a casa solo per mangiare e lavarci alla sera, nel primo pomeriggio era gradito che stessimo fuori dai piedi fino alle 16,30, credo sia per questo motivo che i miei hanno acquistato una depandance sottoforma di taverna, dove noi potessimo fare (o fingere di fare) i compiti, giocare a non t’arrabbiare e arrabbiarci, litigare o comunque fare rumore molesto.
Ricordo alla sera, che nostro papà ci raccontava storie inventate da lui davanti al caminetto, come una illustrazione di un libro dei fratelli Grimm, il Cavaliere senza ombra e altre storie che purtroppo non andate perdute nella notte dei tempi. Oppure puliva i funghi che aveva raccolto nel bosco-unica attività fisica cui si dedicava nostro padre contando anche la famosa gita alla Malga-sempre la stessa tutti gli anni, fatta per puro senso del dovere, che in tre mesi di montagna almeno un picnic alla fine di una salita, bisogna farlo. Ci faceva vedere i porcini, e quel fungo che se lo tagli diventa blu. Poi, quando eravamo tutti pigiamati e lavati ci dava un goccino di Cocacola in tre bicchierini blu di plastica (noi primi tre fratelli, nati vicini, che abbiamo gli stessi ricordi della prima infanzia). Si andava a dormire e si sognavano altre avventure il giorno dopo, si programmavano costruzioni di casette nel prato, raccolte di lamponi, furti di fragole dagli orti, nascondigli per Guardie e Ladri.
Di sicuro mi sarò annoiata, forse, qualche giorno, ma non ricordo la sofferenza della noia. Si dava la caccia alle cavallette nel prato, si andava da soli giù in paese a prendere il calippo al Bar al Pino, dove c’era una signora grassa e buonissima, il bar era sempre quasi vuoto a parte le mosche lente che non avevano imparato come uscire, e non c’era un vero confine tra il bar e il salotto di casa della signora, che abitava di sopra, dove c’erano pure delle camere in affitto. Con gli altri bambini che venivano in vacanza nelle case-da-turisti vicino alla nostra, si giocava, si litigava, si ingaggiavano guerre, gare, si consumavano tragedie e avventure.
A Sfruzbourg alla domenica io e mi sorella ci mettevamo il vestito tirolese, non so perché c’era sta moda, tra la generazione dei miei genitori, di vestire le figlie coi vestiti tirolesi appena salivano sopra il livello del mare. Secondo me è una cosa anni ’60. Fino ai 12 anni mi sentivo una principessa, dopo mi sentivo un po’ disadattata. Tipo una che si accorge di essere uscita di casa con le pantofole. Mia zia Fiore, sorella gemella di mia madre, era andata oltre e vestiva pure il maschio con i lederhosen, ma d’altra parte li ha vestiti da marinaretti fino a 15 anni. 
Ma ovviamente, visto che adesso sono io la madre, ripropino alle mi figlie i vestiti tirolesi, che-da madre- adoro. Uno l’ho pure fatto io, praticamente il prodotto della macchina da cucire che mi è riuscito meglio nella mia vita. A Mario imporrò sadicamente il ledehosen del cuginetto, fino a tre anni è consentito dalla legge.

Sfruzbourg è la nostra patria, la patria della nostra infanzia, ed ora quella dei nostri Fantastici, nonostante un po’ di cose siano cambiate, anche se preferisco non farne l’elenco, perché ora loro hanno i loro luoghi magici, i loro percorsi e storie da raccontare.

28 luglio 2015

la mia vita è un lego di cui ho perso le istruzioni



Un weekend come un altro è un weekend in cui quando suona la sveglia al sabato e mi chiedo dove sono e che giorno è e cosa diavolo ho fatto ieri sera, poi mi ricordo che ho invitato a cena degli amici che non vedevo da secoli, e non avrei fatto tardi se non fosse che poi mi sono messa a guardare faccialibro compulsivamente fino alle due perché non avevo più sonno anche se poi ho lasciato tutti i piatti da lavare perché ero così stanca. Mentre questi pensieri mi affollano la mente nello spazio che va dalle terza alla settima sveglia, e mi dico che da settembre finalmente non lavorerò più al sabato, striscio fino al bagno usando la memoria spaziale, che non riesco ad aprire neanche un occhio. Decido che no, non posso fare colazione in una cucina coi piatti da lavare nel lavello, sovvenendomi anche che non ho nemmeno messo in frigo gli avanzi di pollo, i quali mi guarderanno, unti e bisunti dalla padella, e mi diranno che i bambini africani intanto muoiono di fame.
Allora, in questo weekend-come-un-altro, mi consolo facendo colazione al bar, ma con parsimonia, senza godere troppo, perché è un bar dei cinesi. Poi vado al lavoro, percorrendo strade già calde e deserte, e quando timbro il cartellino mi accorgo che qualcosa non va, perché sono le 8.10, e al lavoro non c’è praticamente nessuno, e infatti il mio collega alla centrale radio mi fa notare che è festa, il santo patrono della ridente cittadina lombarda in cui vivo. Le scelte sono due. Tornare a letto, certa che basterebbe assumere una posizione orizzontale per addormentarmi come quelle bambole che chiudono gli occhi appena le sdrai, d’altra parte la fase del risveglio non è del tutto completata. Oppure assumere altra caffeina ed ottimizzare la giornata andando a fare la spesa.
Visto che so con certezza, in base alla legge della maternità, che se tornassi a dormire, troverei metà della famiglia già in piedi, opto per l’ottimizzazione forzata. D’altra parte io do il meglio solo se costretta dalle circostanze.  Quando torno a casa i Fantastici 4 sono felici della sorpresa, anche se il più felice di tutti è il gmarito, che si è risparmiato la sua mattinata di finto riposo con la prole. Nel weekend-come-un-altro c’è la passeggiata in centro, e la sosta obbligatoria alla Botega che i miei figli chiamano il bar della biblioteca, io e il gmarito ci prendiamo un caffè e i Fantastici corrono al piano di sotto dove ci sono i libri da bambini. No, non è la biblioteca, ma una libreria che rimane aperta grazie agli introiti della gfamily, praticamente. Anche perché non è ancora chiaro a tutti i Fantastici, che i libri che si vogliono portare a casa, vanno pagati, non essendo, appunto, la biblioteca. Ma il gmarito ha il debole per la carta stampata, e loro lo sanno benissimo che se gli chiedono di comprare una Barbie o una pistola, vengono sostanzialmente ignorati, o insultati,  ma se con occhi lacrimosi chiedono un libro (purchè non sia un pseudolibro di Violetta,  Fashion Moda, Winx, ed altro merchandising travestito da letteratura) il padre potrebbe avere dei cedimenti.
Ovviamente scendo anche io a guardare i libri per bambini, mentre il gmarito guarda libri di storia tedesca su Hitler, SS, dittature Comuniste o saggi sull’origine dell’universo. Ho visto un libro bellissimo che desidero spasmodicamente e che ho letto ai Fantastici, per educarli al bello.




(Cioè, cos’è di bello? Cos’è? UN CAPOLAVORO.)
Gli è piaciuto, ma l’educazione al bello deve essere perfezionata, perché dopo SuperMario voleva che comprassi un libretto di Masha e Orso, CatWoman mi propinava un libro su come diventare una principessa che contiene un tutù e una coroncina di plastica cinese, WonderWoman era propensa per una roba che si chiama Top Model.
-Possiamo, possiamo, possiamo?-
-Sì. Potete DESIDERARLI.- Ho risposto. Lo capiranno a  40anni che il bello della vita è desiderare e non avere, e che quando non si ha nulla da desiderare, è ora di lasciare questo mondo. Nel frattempo sono libere di odiarmi bonariamente. Al pomeriggio i Fantastici sono stati assorbiti dal LEGO, finalmente sono riuscita a convincere le bambine a distruggere le loro costruzioni lego Friends (che come dice Megamind sono solo casette, gelaterie, negozi di animali, villette borghesi, fari a strisce rosa e camper, e non hanno nemmeno tutti quei pezzi speciali utili a costruire ALMENO un robot) in modo da liberare la loro creatività. Ci vuole una buona dose di coraggio a distruggere la costruzione lego riportata sul foglietto. Così perfetta, così’ congrua, così in posa. Così in posa, che non ci si può giocare. I bambini (e poi gli adulti) si dividono in tre categorie. Quelli che disfano le costruzioni in lego, pur sapendo che, anche conservando le istruzioni, non riusciranno mai più a rifare la costruzione originaria, ma creeranno altre magnifiche e imperfette e mirabolanti invenzioni;, e storie, e mondi; quelli che costruiscono seguendo le istruzioni e poi mettono l’opera su una mensolina a prender polvere come una scultura di cristallo svarosky, e quelli che costruiscono, distruggono, creano qualcosa di nuovo, ma poi sono così precisi che non perdono nessun pezzettino e nemmno le istruzioni e riescono a RICOSTRUIRE esattamente l’opera originaria. Esistono, sono rari, ma esistono.
Insomma, dopo questa lezione di vita alle mie bambine, che le ha tenute occupate tutto il pomeriggio, il weekend-come-un-eltro è proseguito, è venuta la suocera, poi mia cognata, siamo passati alla cena e poi sono riuscita persino a trascinarmi fuori dopocena, che SuperMario sente la mancanza della bebidenz e vuole uscire tutte le sere a sentire la musica come in villaggio. In piazza c’era una brutta copia di FreddyMercury che cantava , e superMario ha deciso che farà il batterista.
Domenica siamo andati, insieme alla cognata che ci ha tenuto compagnia, sul lago, che non è il lago, ma è il Ticino, ma il gmarito allora fidanzato mi ha portato sempre a Sesto Calende facendomela passare per gita al lago, e da allora per me è andare al  lago, in fondo di acqua ce n’è. I Fantastici hanno giocato al parco giochi, e donato il congruo obolo alle zanzare di fiume.
E’ stato un bellissimo weekend-come-un-altro, che poi è evidente che i nostri weekend sono come le costruzioni di lego. Non ce n’è uno come un altro. E quando lo inizi, non sai cosa ne verrà fuori.


(si sappia che Megamind non vuole farsi fotografare, è questo il motivo per cui no c'è quasi mai nelle foto. Non perchè è il figlio disdegnato)

22 luglio 2015

Le mete delle vacanze: Il Solimei


Cosa facevo io d’estate. Io e i miei fratelli eravamo molto fortunati, perché stavamo via tutta l’estate. Quando finiva la scuola ricordo che a casa c’era un fermento operoso, perché chiudere casa per tre mesi era un affare serio. Non so bene cosa facesse mia madre, ma la ricordo in preda all’operosità casalinga senza fine, assieme alla mia tata, che sembrava si preparassero all’invasione della Polonia. Anche ora, che sono (pressochè?) adulta e anche madre e anche potenzialmente casalinga, non riesco ad immaginare cosa facessero tutto il giorno, per almeno una o due settimane, (e questo dovrebbe forse farmi porre delle domande). Cioè, a parte le valige. Comunque a noi bambini questa cosa ci sfiorava appena. Ricordo che mi mettevo in costume e fingevo di nuotare strisciando sul pavimento di marmo, come fanno i gatti quando hanno caldo. Ricordo che alla mattina mi svegliavo nel caldo e nella luce con le finestre spalancate e pregustavo il vuoto di una giornata senza doveri, come solo i bambini possono avere.
Poi si partiva. E le mete erano tre.
Meta numero uno.

La casa di campagna dei nonni era meta ambitissima da noi bambini, perché là c’era l’immensità della campagna, la camera con 4 letti a castello rossi in cui dormire assieme ai cugini, la libertà, il controllo parentale assai allentato, il mistero di una villa antichissima forse popolata dai fantasmi, giochi da inventare, favole da raccontarsi, mondi da immaginare, le biciclette, la fattoria “Mammi” dove andare a comprare il latte (che bisognava bollire e poi togliere la panna) e le uova, ma soprattutto a vedere gli animali e se eri fortunato c’erano anche i cuccioli appena nati di qualche mucca o maiale o cane o gatto. Della Campagna ricordo le nottate tra cugini e il vasino da notte perché era troppo buio per attraversare l’enorme loggia buissima in cui aleggiava il fantasma del Conte Solimei. 
Il vaso da notte si rovesciava puntualmente o qualcuno ci metteva il piede dentro per sbaglio, creando tutta una mitologia infantile che accomuna tutti noi cugini in un lessico famigliare indissolubile. Prima di crollare nel sonno si faceva un gran casino, si raccontavano storie di paura, si dava la caccia al grillo entrato in camera che non faceva dormire, una notte era pure entrato un pipistrello, e c’era sempre quell’odore di zampirone, che non so come non siam morti intossicati, ma era un odore bellissimo. Ricordo le biciclette, un numero imprecisato un po’ di tutte le misure, che ci passavamo a seconda dell’età, ma ne mancava sempre una, quindi c’era per l’ultimo cugino di turno, il mezzo di locomozione sfigato che era un lentissimo monopattino con cui il cugino arrancava lentissimo dietro gli altri, spingendosi con il piede forsennatamente e gridando all’ingiustizia. 
Poi intorno alla casa, nell’immenso parco, c’erano i vari mondi. Diversi, ognuno con la sua luce e con la sua favola da raccontare e la sua avventura da vivere. 
Ricordo la chiesetta, ovvero la cappella privata della villa, quasi sempre chiusa, e dalle cui finestre si spiava dentro e si vedevano paurose effigi e statue buie e arredi di legno scuro, e puzza di muffa e mistero. Dietro la chiesetta, un fico su cui una volta c’era un serpente giallissimo, che ricordava tanto una illustrazione di Adamo ed Eva. Dietro la chiesetta, un campo di grano, IL campo di grano per antonomasia, dorato, giallo perfetto, e dietro ancora, il cielo azzurro, perché eravamo nella bassa modenese, quindi era tutto piatto a perdita d’occhio, e lì capivi come per secoli il mondo poteva davvero essere stato piatto e infinito come la pianura padana. Nel parco c’era un inquietante laghetto artificiale, in mezzo al boschetto, e dentro ci tocciavano  i rami di un salice piangente che a noi bambini sembrava tristissimo per davvero, e tutto intorno c’erano le famose sabbie mobili che inzaccheravano le gambe fino alle ginocchia, e se t’impantanavi e sopravvivevi, dovevi fare i conti con le mamme. Nei periodi di siccità si formava l’isola, e sull’isola ci andavano solo i cugini grandi ovvero mio fratello Giacca e Mattia il Gigante che beveva sempre latte anche al posto dell’acqua. Il laghetto era l’incubo dei genitori, che avevano paura che affogassimo, quindi si era formata tutta un clima di terrore per cui ci si avvicinava solo di nascosto, e comunque sabbie mobili e salice piangente lo avevano fatto diventare la palude della tristezza della Storia Infinita, quindi ci si avvicinava cautamente. Vicino al laghetto c’era l’altalena, perché non c’è infanzia senza altalena, e non c’è infanzia senza i turni, litigi e guerre, per salire sull’altalena. Poi c’erano le stalle. La villa era del ‘700,  con una loggia centrale per far entrare le carrozze, ed una stalla interna per i cavalli. La stalla vecchia era buia, c’era odore di aceto perché c’erano tante bottiglie con le paurosissime madri che facevano l’aceto di vino, e qualche volta noi bambini toglievamo il cappuccio fatto di carta di giornale e infilavamo il dito per assaggiare l’aceto che era un po’ come ubriacarsi col vino rosso. Ci stavano, un po’ accatastate e ingarbugliate tra loro le bici, la pompa e le camere d’aria di ricambio o da aggiustare. C’era l’asse da stiro perché faceva fresco e lì ci si poteva stirare, e c’erano miriadi di attrezzi e oggetti polverosi e sconosciuti, e ogni volta che entravi dovevi stare attento. Poi c’era la stalla nuova, un edificio staccato dalla casa, dietro a dei cipressi  e superato l’albero su cui era stata costruita la casetta sull’albero che però poteva andarci solo il cucino grande perché era pericoloso. Nella stalla nuova c’era più luce, c’era il lavatoio e forse la lavatrice, non ricordo perché a noi bimbi le faccende domestiche non ci tangevano. Ricordo che spesso entravano le libellule giganti e poi battevano sui vetri per uscire. Dietro alla stalla nuova c’era la ghiaia, ovvero un mucchio di ciottoli che non ho mai capito perché fossero lì, ma ci avevano detto che erano molto preziosi, quindi non si potevano spargere in giro, e dunque diventavano molto interessanti ai nostro occhi, e ovviamente li spargevamo in giro. 
Lì accanto c’era la buca della sabbia e la carriola arrugginita. E poi c’era la legnaia, dove ci nascevano sempre i gattini, che, per quanto ne sapevamo, venivano generati spontaneamente dalla legna , e spasimavamo per prenderne uno, ma non c’era verso. Ricordo il bosco di noccioli (poteva essere un bosco solo per noi nani) dove ci mangiavamo chili di nocciole ancora verdi schiacciate sui sassi, e i gelsi piangenti, che erano in realtà dei tepee indiani dentro cui noi femmine ci rifugiavamo e mangiavamo le more di gelso, anche quelle ancora bianche e aspre, e ci sporcavamo la maglietta “con le more che non vengono più via”. Davanti alla casa, sotto la finestra della cucina, era cresciuto un albicocco, famoso perché si raccontava che fosse nato perché la mia mamma da bambina aveva buttato dei noccioli di albicocche dalla finestra. Poi c’era il mondo vicino alla botte e al carro, lungo uno dei fianchi della casa. C’era un grande botte di legno, sicuramente preistorica e un antico carro di legno, su cui si poteva salire solo col permesso, e a fianco un prato grande e incolto con l’erba alta che se ti sdraiavi non ti vedeva nessuno, e dietro quel campo tramontava sempre il sole, quindi era a occidente. Poi c’erano i pioppi cipressini, uno a destra e uno a sinistra del cancello di ferro battuto all’ingresso della villa, ed erano i guardiano della casa, quello più basso era la nonna, quello più alto il nonno. Da lì, partiva il viale di ghiaia bianca (il viale magico che conduceva al nostro mondo magico) delimitato dalle siepi di bosso (quell’odore non si scorda mai) in cui c’erano i nidi di ragni tigre, a righe gialle e nere. Dell’interno della casa ricordo la grande sala, col pianoforte a coda ma senza corde che le avevano rubate i tedeschi durante la guerra, la stanza del camino in cui molto raramente si vedeva un po’ di tv  con una brionvega rossa in bianco e nero, ricordo numerose stanze da letto e lo studio del nonno, in cui a volte ci faceva vedere dei filmini dei Tom e jerry con Super8, era come andare al cinema e si sentiva quel rumore della pellicola che scorre e a volte si ferma. Ricordo la cucina spartana con vecchie pentole di alluminio, e dietro la cucina, la porta quasi come nascosta, come un passaggio segreto, che portava alla stanza da letto della zia Matilde, la sorella di mia nonna, che era sempre un po’ triste. E poi c’era la soffitta, la terribile, affascinante, misteriosa, buia soffitta piena di tesori e dove ci aveva fatto il nido la civetta. Lì tutto era spettrale, la lampadina, sarà stata da 5 watt come le lucine dei cimiteri, chissà poi perché, cosicchè tutto lì dentro faceva paura, dunque era fichissimo. Ci si saliva per una scaletta stretta e oscura, e dovevi farlo di nascosto, che lì c’erano anche cose preziose, o pericolose, o sicuramente segrete.


 Il Solimei, questa era la nostra Isola Che Non c’è, e noi eravamo sia i bimbi sperduti che piterpan, e prendevamo tutti la pastiglia per restare sempre bambini, e cioè la mollica di pane impastata con lo zucchero a velo, ridotta a piccole palline appiccicaticce. Se dovessi far coincidere la fine dell’infanzia più spensierata e magica, direi sicuramente quando i miei nonni hanno venduto il Solimei, io avevo 11 anni.
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21 luglio 2015

Lontano lontano

Vacanze della Gfamily.
LaGfamily è andata in vacanza e ha fatto una cosa nuova. Per me, fare cose nuove è entusiasmante ed eccitante come per un bambino che per la prima volta va in altalena in piedi anziché seduto, ma ovviamente mi fa anche un po’ paura. Non è un caso se quando facevo l’educatrice, le “mie” ragazzine di 15 anni mi chiamavano “la nonna”.
Fare nuove esperienze e cambiare prospettiva pare faccia diventare più intelligenti, e funziona un po’ come la selezione darwiniana: se non muori, ti evolvi. Visto che non basta dormire con la testa al posto dei piedi (del letto, intendo, eh), quest’anno abbiamo deciso di fare due (DUE) settimane al mare (e questo è già un evento rispetto alla settimanella solita, che ora che ti sei abituato e ti è finalmente passata la stitichezza da cambio d’ambiente, è già ora di tornare.) Inoltre, il Gmarito ha proposto un luogo davvero lontanissimo, praticamente superate le Colonne d’Ercole, addirittura dopo Eboli, in un luogo remoto che sono andata a cercarmi sulla cartina geografica politica dell’Italia sul libro di Geografia di Megamind.(solo così si impara geografia, lo sappiamo, andando a vedere se la Campania è davvero di colore arancione come mostra la carta).
Vent’anni fa, anno più, anno meno, il Gmarito, allora giovane ragazzo biondo (si lo, nemmeno io ci credevo che fosse biondo), era stato qui, alla Baia del Silenzio, a Palinuro. Probabilmente avrà dragato di brutto, avrà un sacco di ricordi che prima o poi gli estorcerò, ed è stato felice di sapere che, se non il suo fascino biondo, almeno il luogo esisteva ancora. E valeva la pena di provarlo.
E’ un villaggio di bungalow immerso in un uliveto a picco sul mare, bellissimo panorama mentre scendi verso il mare, momento in cui ti riproponi di fartela a piedi anche al ritorno per rassodare i glutei, cosa che ovviamente non farai alle 13,00 con 39 gradi. Quindi mare, piscina, babyclub (che ovviamente Megamind ha schifato), animazioni più o meno moleste, balli di gruppo in spiaggia, lo yoga mattutino a cui sarei voluta andare ma non sono riuscita, ma poi a vederlo mi è sembrato di più ginnastica per la terza età, pedalò, canoe, campi da tennis e calcetto a disposizione, serate organizzate cui i Fantastici 4 ci costringevano ad andare, compresa la bebidenz a cui superMario non poteva assolutamente mancare.
Quando arrivi in vacanza e hai davanti due settimane, è come se avessi davanti un grande terrazzo, vuoto, sconfinato, pensi di avere tantissimo tempo per fare di tutto, e nel contempo vuoi fare tutto, ottimizzare i tempi, riempire tutte le caselle. Ti alzi presto, fai colazione, mandi Megamind al corso di vela alle 9 in punto, che in spiaggia si arriva nelle ore più fresche si sa. Poi i giorni passano e ti rilassi, indugi sul caffèlatte sulla terrazza, te la prendi comoda, si pranza alle due, tanto chi ci corre dietro, ci sta la penichella che fa un caldo porco, ceni alle nove, insomma ti riposi davvero e dimentichi l’orologio. Arriva venerdì, il finesettimana, ma tanto ci sono ancora altri 7 giorni, ti sembra una eternità. Poi, arriva martedì della seconda settimana, e già cominci a pensare che se non prenoti la gita alle Grotte, poi finisce la vacanza che te le sei perse. Pensi, tra due giorni è venerdì, quindi è il finesettimana, e visto che si parte domenica, la vacanza è quasi finita. Perché il mio cervello ragiona così, e forse è così pure la vita. Il terrazzo sconfinato si riduce ad un balcone, e poi ad una finestrella con vista. Ora sì che vorresti ottimizzare ogni istante, ma l’effetto novità della vacanza si è già trasformato in rilassata abitudine, ti sei già accomodato, l’ordine che tentavi di conservare nel piccolo appartamento i primi giorni, si è trasformato in allegra anarchia. E allora, glie la dai su, e decidi di lasciar correre così i giorni che mancano, senza ottimizzare, senza contar minuti, semplicemente contemplando, senza la paura della noia, nemmeno quella dei bambini, che a noi genitori ci mette in crisi, e gli rispondiamo: ma come, questa bella vacanza, che ti abbiamo pagato PURE il miniclub, e fai tennis, e fai un giro in canoa, e vai tutti i giorni al corso di vela che son già tutte attività pagate.
No. E’ terribile, se ci si pensa.
 Megamind mi sembra un po’ disadattato, perché sta ore con la maschera a guardare il fondo del mare e tentare inutilmente di catturare un granchio sugli scogli. I ragazzetti della loro età se ne stanno in gruppetti a giocare a pingpong. Lui solo, a fantasticare, a sparare acqua col suo mitra, a fare castelli di sabbia da solo.  Ma se ripesco i ricordi dalla memoria anche io ero un po’ così, ci si annoiava, d’estate, da bambini. Si stava ore a contemplare, a guardare, ad oziare nel caldo, annusando l’aria, e inventandosi giochi anche solitari, eppure i miei genitori non se ne preoccupavano un granchè, e nemmeno io. La verità è che per riposarsi, bisogna annoiarsi. Ma nella noia c’è anche dell’altro. La scoperta di se stessi, il tempo per pensare, per vivere il tempo in maniera non consumistica, non come un processo industriale su cui fare un controllo qualità e l’ottimizzazione dei costi. Quante e quali attività ed esperienze nuove riesci a far entrare in 15 giorni, non sono la misura del successo del periodo di vacanza.  E in due settimane c’è tutto quel che serve: l’entusiasmo, la scoperta, la novità, ma poi anche il riposo, il vuoto, la noia, la contemplazione lo “spreco” del tempo.






3 luglio 2015

sento il mare dentro....

Il tempo d’estate è arrivato. Ma nessuna estate è uguale all’altra, i Fantastici 4 crescono, cambiano, si complicano, si arrangiano, si annoiano, si autonomizzano, vanno in crisi; tutto questo in ordine sparso, su più fronti e con tutte le combinazioni possibili. Megamind  è ComplicatedMind, ovvero lui prende tutto molto molto molto seriamente. Lui è un senza pelle, un po’ come me. Si fa turbare molto facilmente, tutto ciò che lo sfiora, dalle esperienze alle emozioni, è come se lo facesse sulla carne viva. Con la conseguenza che nulla è facile, liscio, sereno. E’ un po’ il prezzo da pagare per la profondità dell’anima, ma soccia, per me, madre apprensiva e in colpevolizzazione continua, è sfinente. E quest’anno, in crisi lo ha messo l’oratorio estivo. L’oratorio estivo, quella cosa che nella mia Rossa città non esisteva. Un assolato spazio in cui sperimentare il divertimento ma anche la dura lotta per sopravvivere. Megamind odia il calcio. Odia i giochi organizzati coatti. Odia il tempo libero perché tutti giocano a calcio. Tutti i maschi, giocano a calcio. E visto il suo smisurato amorproprio, lui, se fa una cosa la deve fare perfettamente, o comunque mantenere lo standard dei compagni, sennò getta la spugna. E quindi passa ore ad annoiarsi, mentre tutti i maschi dell’oratorio tirano calci al pallone, capaci o no.  Il Genitore ha di fronte due scelte. Costringerlo, che si fa uomo, che già non c’è più il servizio militare (Genitore maschio). Trovare una alternativa-ovviamente costosa-ma che lo rassereni (Genitore Mamma).
Così Megamind è stato iscritto all’oratorio dei ricchi, che infatti non è un oratorio, ma un campus presso una scuola elementare, in cui pochi bambini molto seguiti vengono coinvolti in attività molto curate, dallo sport ogni giorno diverso, alle attività pseudoagricole (orto, equitazione su pony, far formaggio) e nulla viene lasciato al caso. Paletto, paletti, paletti.
Poi c’è CatWoman, che all’oratorio ci vivrebbe, dedicandosi alle sue attività preferite, mercatini, far braccialetti, spettegolamenti, primi amori, blanda competizione, seduzione degli animatori. Da cui si evince che il mondo femminile ha infinitamente più idee, creatività, varietà di quello maschile.
Lei è libera di essere spettinata, scalza, di mangiare patatine e caramelle che acquista senza controllo coi proventi del mercatino, di digiunare alla mensa, di sporcarsi senza mai lavarsi le mani. Un mondo selvaggio per una bambina selvaggia, che quando torna a casa mi guarda torva coi suoi occhi di ghiaccio quando le dico di andare a lavarsi le mani e disincrostarsi i piedi. Purtroppo una sospetta varicella le ha fatto sospendere questa esperienza di totale anarchia, costringendola a casa con la noiosissima madre.
Meno male che la ZiaMatta (come si definisce lei stessa, eh) l’ha portata al concerto di Lorenzo.
Jovanotti, sì. A San Siro, si.
Sì, ha solo 7 anni.
WonderWoman, che a proposito di paletti, non sa cosa siano, è volata in sardegna con la mia Omonima Amica, madre della sua AMICADELCUORE. Primo volo in aereo. Vacanza con prevalenza femminile, alto tasso di divertimento, sole, ammucchiate nel lettone, shopping libero con la paghetta dei nonni.
Dopo una settimana di gioia pura, cene al ristorante (me la sento tra 5-6 anni che mi dice: “il migliore amico di una donna è un diamante”) oggi, torna a casa, carica di regali per tutti, e probabilmente scura come una nocciola.
E domani, la Gfamily, parte per la Campania. Senza “gn”. CampaNIa.

Pare sia un Regione d’Italia, molto a sud.