Quest’anno l’attesa
del Natale, che è l’essenza della vigilia, il sabato del villaggio, in altre
parole la felicità, è stata divorata.
Divorata da incastri
inumani per presenziare ai recital natalizi, dalle corse per fare la spesa, per
accontentare tutti, per fare le valigie. Tutte queste cose sono belle, ma non
concentrate tutte in 10 giorni risicati. L’attesa del Natale avrebbe bisogno di
vuoti. E a me i vuoti mancano, ne ho bisogno.
Ho tentato di
guadagnare tempo acquistando tutti i regali on line, cucinando di notte,
uscendo prima dal lavoro per fare la spesa, e poi, nonostante tutto, quando hai
finito di colmare tutte le aspettative, di avere incastrato tutti gli impegni,
di preparare ogni cosa (tranne l’anima), di avere sistemato la casa, finalmente
ti fermi per dire: ecco adesso posso mettermi ad aspettare, a contemplare
l’attesa. Ma non c’è più tempo. Il tempo è finito. Quello nasce, e manco gli ho
preparato una culla nel mio cuore, tutto corre via, ci lascia distratti, e a
volte lascia scontenti pure i nostri cari, perché per accontentare tutti, non
accontentiamo nessuno.
Allora era meglio
nascere pastori, e starsene al buio a fare una vita un po’ di merda
senza orpelli, al freddo, tra pecore puzzolenti, senza neanche poter dormire,
apparentemente senza fare niente se non badare a delle stupide bestie. Loro
almeno hanno visto angeli e cori, e la stella cometa.
Dopo il giorno Natale
siamo partiti per Bologna. Ci sono arrivata talmente stanca e debilitata e
mezza zoppa che mia madre mi ha guardato e mi ha detto: forse dovevi truccarti un po’. (mamma, non te l’ho detto, ma il
dramma era che ERO truccata)
In 39 anni e 10 mesi non me l’aveva mai detto,
che dovevo truccarmi.
Ho passato i primi tre giorni like a zombie con un’ascia immaginaria
conficcata tra la tempia e l’occhio destro, priva della forza di fare un sorriso
senza che sembrasse un ghigno degno di Tim Burton. Li ho passati a dormire, ma
quando mi alzavo avevo la faccia di chi si risveglia da una anestesia totale
dopo un intervento di trapianto facciale. A calarmi di aspirina per il mal di
schiena. Dopo tre giorni (i miracolosi e canonici tre giorni) ho iniziato a riprendere
coscienza, a guardarmi intorno e a dirmi: ok, sono tornata ad abitare il mio
corpo . Ok, ecco posso tornare un po’ figlia, ecco i miei fratelli, i cognati,
la mia Bianchissima nipotina, la Tata Cordelia, trovo la forza di fare due passi senza disarticolarmi la
gamba di legno.
Il quarto giorno siamo
perfino riusciti a portare fuori i fantastici, sul tetto di San Petronio (dove
il Gmarito si è trasformato in una chioccia impazzita che tentava di
raccogliere i suoi pulcini al centro della terrazza panoramica, nel punto
geometricamente più lontano dai parapetti, convinto che di sicuro avevano la
ovvia ed istintiva intenzione di arrampicarvisi gettandosi di sotto. WonderWoman scendendo ha
commentato che era stato bellissimo salire con l’ascensore, perché una volta
su, non aveva visto nulla. (non ha usato proprio la parola “nulla”)
Siamo pure stati ad
una mostra di presepi (se ne fanno ancora, evidentemente), e al cinema.
Io e il Gmarito, soli.
Un parrucchiere
Pugliese con un negozio a Bologna e una cugina a Gallarate (per la cronaca) mi
ha convinto (probabilmente mettendo una sostanza psicotropa nel caffè) a
tagliarmi i capelli trasformandomi in Rita Pavone e facendomi un riflessante
color mattone. Giusto così per prepararmi alla tinta rosso-menopausa che dopo i
quarant’anni pare sia il must.
(a me non mi avrà
mai).
Mi consolo pensando
che- se non succede niente-i capelli ricrescono. E pure se succede qualcosa,
tanto pare che i capelli continuano a crescere pure nella tomba, quindi non
sarò condannata a morire Rita Pavone.
Ho cucinato dosi da
esercito di ragù e il 31 siamo partiti alle volte della Svizzera per passare il
capodanno con gli amici e un numero imprecisato di bambini. Lì, in questo
ostello tutto per noi, abbiamo (ovviamente) mangiato come se non ci fosse un
domani e nemmeno uno ieri, abbiamo salutato l’illusione di un nuovo anno come
se esistesse il tempo fuori da noi, abbiamo camminato in mezzo alla natura,
abbiamo avuto la conferma ed il monito ancora una volta che solo l’amore (nelle
relazioni) resta. E che ancora una volta si poteva fare dare (di noi
stessi) di più. Non importa che percorre il tratto di strada più lungo.
Ok, finito il pippone
di Natale.
Buon 2017!!
RispondiEliminaI capelli ricrescono eccome, io ho fatto sempre le peggio cose!
esatto!Nel frattempo potrei imparare a cantare...
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